di Marco Noris (da Transform-Italia)
Chi c’era, e ha buona memoria, si ricorda il ruolo e l’efficacia del mondo dell’informazione italiana nella prima guerra del Golfo del 1990/91. Il contesto storico era quello successivo alla caduta del muro di Berlino e di pochi mesi antecedente alla definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Eventi che hanno determinato e determinano tuttora la traiettoria storica del mondo e dell’Europa in particolare: la mutazione genetica del più grande partito comunista dell’Occidente e il Trattato di Maastricht si inseriscono in pieno in questo processo. Quello che però non è mai stato sufficientemente sottolineato è un altro cambiamento radicale di quel periodo, la caduta di un Tabù (auto)imposto all’intero continente europeo rispetto a ciò che si era confermato, in maniera definitiva nella prima metà del ‘900, come il più terribile, distruttivo e massacratore evento della storia dell’umanità: il tabù della guerra.
Appena dopo l’invasione irachena del Kuwait nell’agosto del ’90, il terrore in Europa per il ritorno di tale spettro distruttivo era palpabile; non che nel mondo non ci fossero stati e fossero allora contemporanei numerosi altri conflitti, ma la questione del Golfo prefigurava una partecipazione diretta degli stati europei come non se ne vedeva più dal 1945. Il ruolo dell’informazione, in particolare in Italia, fu essenziale: nel giro di pochi mesi, attraverso qualsiasi mezzo informativo e manipolatorio, soprattutto con l’avvicinarsi dell’attacco diretto del gennaio 1991, una fetta consistente, forse ancora non maggioritaria ma sufficiente della popolazione spettatrice italiana si convertì all’interventismo. L’Europa che ritrovava la libertà liberandosi dalle glaciali morse della guerra fredda, era ora libera di riscoprire e riattualizzare il proprio passato: la guerra del Golfo prima e il conflitto jugoslavo poi mostrarono una della più cruente modalità di questa riscoperta.
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