Draghi, vecchi e nuovi mostri e altre calamità

di Marco Noris (da Transform-Italia)

Chi c’era, e ha buona memoria, si ricorda il ruolo e l’efficacia del mondo dell’informazione italiana nella prima guerra del Golfo del 1990/91. Il contesto storico era quello successivo alla caduta del muro di Berlino e di pochi mesi antecedente alla definitiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Eventi che hanno determinato e determinano tuttora la traiettoria storica del mondo e dell’Europa in particolare: la mutazione genetica del più grande partito comunista dell’Occidente e il Trattato di Maastricht si inseriscono in pieno in questo processo. Quello che però non è mai stato sufficientemente sottolineato è un altro cambiamento radicale di quel periodo, la caduta di un Tabù (auto)imposto all’intero continente europeo rispetto a ciò che si era confermato, in maniera definitiva nella prima metà del ‘900, come il più terribile, distruttivo e massacratore evento della storia dell’umanità: il tabù della guerra.

Appena dopo l’invasione irachena del Kuwait nell’agosto del ’90, il terrore in Europa per il ritorno di tale spettro distruttivo era palpabile; non che nel mondo non ci fossero stati e fossero allora contemporanei numerosi altri conflitti, ma la questione del Golfo prefigurava una partecipazione diretta degli stati europei come non se ne vedeva più dal 1945. Il ruolo dell’informazione, in particolare in Italia, fu essenziale: nel giro di pochi mesi, attraverso qualsiasi mezzo informativo e manipolatorio, soprattutto con l’avvicinarsi dell’attacco diretto del gennaio 1991, una fetta consistente, forse ancora non maggioritaria ma sufficiente della popolazione spettatrice italiana si convertì all’interventismo.  L’Europa che ritrovava la libertà liberandosi dalle glaciali morse della guerra fredda, era ora libera di riscoprire e riattualizzare il proprio passato: la guerra del Golfo prima e il conflitto jugoslavo poi mostrarono una della più cruente modalità di questa riscoperta.

Tornando alla questione dell’informazione la cosa che colpì fu la capacità di rendere repentino il cambiamento dell’opinione pubblica dell’epoca; il tutto si giocò in pochi mesi se non in poche settimane. Il sistema mass mediatico dei primi anni ’90 del secolo scorso dimostrò una capacità persuasiva e manipolatrice del sentire popolare di un’efficienza inaspettata e dai risultati pressoché immediati. Vale la pena sottolineare una banalità che nel contesto del discorso tenderemmo a dimenticarci: i social allora non esistevano e non si può attribuire loro responsabilità alcuna.

Quello che però va sottolineato è che nei momenti di transizione storica e di brusco passaggio epocale il sistema informativo, la sua invasività totalizzante nello spazio della vita quotidiana delle persone possono accelerare, e molto, cambiamenti di opinione e di sostegno ai processi di trasformazione stessi, e questo avviene in maniera sempre più sorprendente per i tempi stretti nei quali si realizza.

Quello che è accaduto al sistema informativo italiano in queste ultime settimane in merito all’ascesa di Mario Draghi può essere letto in questo modo: il sistema oligopolistico dell’informazione italiana a reti e mezzi stampa unificati hanno accelerato l’accettazione del nuovo salvatore della Patria con modalità propagandistiche e retoriche degne della Roma imperiale. Certo, l’ascesa di Mario Draghi non è minimamente paragonabile alla partecipazione europea alle distruzioni della guerra: ingiusto e grottesco persino pensarlo, ma la domanda è un’altra. L’imponente spiegamento delle armi della persuasione e, detto senza mezzi termini, della propaganda a favore di Draghi prefigura comunque un passaggio epocale che necessita della creazione del più ampio consenso possibile?

Oltre il monopartitismo competitivo

In un suo libro del 2014, Domenico Losurdo1 dava la definizione di monopartitismo competitivo inserendola nel contesto contemporaneo nel quale il trionfo del pensiero unico neo-liberale (e neo-colonialista) si era realizzato anche grazie alla dissoluzione della Sinistra, all’interno di un sistema filosofico, politico e, più in generale, culturale, in cui le differenze e i conflitti erano per lo più evaporati. La storia degli ultimi trent’anni dà ragione a Losurdo: il fallimento della Sinistra della Terza via ha reso indistinguibili le parti nell’ambito di una polarizzazione sociale ed economica che ha visto come protagonisti tanto le sedicenti compagini di centrodestra quanto di centrosinistra, tanto in Italia quanto in Europa. Vale sempre la pena ricordare che chiunque tentò una “seconda” via reale a questo stato di cose fu politicamente emarginato o colpito come eretico, come dimostra l’esperienza di Syriza in Grecia che ebbe tra i suoi principali e inaspettati avversari politici proprio la Socialdemocrazia tedesca.

Il nuovo governo Draghi si iscrive in pieno all’interno della traiettoria storica degli ultimi 30 anni ma ha un elemento di novità che non può passare inosservato: se prima la competizione politica avveniva all’interno dei paletti ideologici e politici dettati dalla comune arena neoliberista oggi, con Mario Draghi, tale competizione viene sostanzialmente azzerata. Non dovrebbe stupire più di tanto questa cosa: la comunanza ideologica, il riferimento e la tutela degli interessi di classi sociali affini poteva portare a questo approdo; ma Draghi si dimostra appunto come l’acceleratore di un processo che comporta un balzo di tipo evolutivo verso un monopartitismo che non ha più nulla di competitivo. È, in fin dei conti, il Draghi che afferma che ai mercati non interessano né elezioni né riforme poiché hanno il “pilota automatico” che realizza tutto questo. Draghi è il manutentore di questo pilota automatico, è colui che concepisce una trasformazione delle istituzioni politiche quale possibile intralcio o solo ritardo al lavoro del pilota a lubrificante e facilitatore del lavoro del pilota stesso, e lo realizza attraverso il governo del paese. Al di là dell’idea di una simile funzione, quali sono le caratteristiche peculiari di questo governo?

La natura morta delle istituzioni.

Si sta scrivendo molto sul governo Draghi anche, se per la verità, le reazioni non sono state immediatissime: lo shock di fronte alla lista dei ministri è stato forte e i tempi di reazione e delle analisi non propriamente immediati: qualcuno afferma che ci troviamo di fronte al governo più di destra della storia repubblicana, difficile dirlo, forse non è proprio così, ma ad opinione di chi scrive non pare questo il punto centrale. Draghi, con il suo governo, compie un piccolo capolavoro, indubbiamente studiato con attenzione. Non si tratta semplicemente dell’applicazione di una sorta di manuale Cencelli attraverso il quale poter accontentare tutti nell’assegnazione di incarichi e poltrone ma di molto altro e di molto più significativo in termini di passaggio epocale: il blocco e il depotenziamento di quelle stesse forze politiche che gli daranno probabilmente una fiducia molto ampia. Proviamo ad analizzare, seppur per sommi capi la situazione delle principali singole forze politiche. Così come scritto dai ricercatori e dai politologi de “Il Cantiere delle idee”2 l’adesione al governo Draghi da parte del Movimento 5 stelle ne determina la decadenza poiché tale forza politica non potrà più utilizzare nessuna delle parole d’ordine che aveva usato alla sua nascita. Se da un lato tale collasso poteva comunque sembrare scritto da tempo, il sostegno a Draghi da un lato e la conseguente immediata scissione interna ne connotano ampiamente lo stato di agonia. Per quanto riguarda il Partito Democratico diventa quasi inutile scrivere qualcosa che non sia già stato detto: nel trentennale dello scioglimento del PCI, la sua pacifica adesione al governo Draghi parla da sé dell’intera sua fallimentare traiettoria storica. Per quanto riguarda più a sinistra, LeU, per quella sinistra che si illude di poter incidere in qualche modo in Parlamento e sull’azione del Governo ecco che le tensioni verso una divisione interna in merito al sostegno a Draghi sono presenti, ma la questione è un’altra e in merito vanno sottolineate almeno tre cose: la prima è che quella sorta di eterno ritorno dell’uguale processo per cui la proposta politica di sinistra cerca un appoggio sul versante PD è sempre stata fallimentare; se da un lato, allo stato attuale, il rapporto tra un qualsivoglia progetto di sinistra e le socialdemocrazie europee appare a dir poco problematico, ebbene nella specificità italiana è nella sostanza e nell’esperienza storica impossibile. La seconda cosa è che nell’attuale contesto è abbondantemente dimostrato che, a fronte di un eventuale rapporto instaurato in termini di alleanza con il PD, la continua accettazione del “meno peggio” di oggi significa la sostanziale accettazione di ciò che era peggio ieri; la terza cosa, ben più importante è la mancata presa di coscienza che sul peggio o il meno peggio, non solo tale sinistra non è più in grado di incidere ma il processo politico in atto è totalmente indifferente alla sua stessa esistenza. Difficile in questo scenario immaginare un futuro diverso dalla sua dissoluzione: l’impotente rappresentanza parlamentare, in questo specifico contesto, rischia semplicemente di certificare ancor più l’impotenza delle forze politiche di sinistra e la perdita anche dell’ultimo residuo sostegno in termini elettorali.

L’operazione di Draghi, però, va analizzata anche verso destra. Partendo dal fatto che la destra antisistemica in Parlamento non esiste, e che le forze politiche della destra -per quanto chiassose- in particolare la Lega, hanno sempre avuto come riferimento precise classi politiche imprenditoriali, dobbiamo registrare, anche in questo caso, una sorta di blocco e di dipendenza nei confronti del nuovo Presidente del Consiglio. Per spiegarlo meglio, occorre tornare al ruolo di Draghi nel più ampio scenario europeo negli anni passati. Un pensiero che andrebbe adeguatamente sviluppato in ben altre sedi ma che qui va comunque accennato, è quello per il quale l’Unione europea sorta dal trattato di Maastricht ha spesso svolto, con vicende alterne, un ruolo di riequilibratore tra gli interessi dei vari capitali nazionali e quelli più globalizzati, in particolare finanziari. Banalizzando, si può affermare che il gioco ha funzionato discretamente fino alla crisi del 2008, poi il banco è saltato e i conflitti tra capitali “piccoli” e “grandi”, nazionali e globalizzati è andato via via ad acuirsi e tale situazione non è affatto estranea alla crescita dei movimenti di estrema destra in Europa. In questo senso si potrebbe anche affermare che l’Unione Europea ha demandato Il ruolo di riequilibratore del sistema alla BCE diretta da Mario Draghi, il quale, nel corso del tempo, destreggiandosi tra periodi di austerità e politiche espansive che denotavano una sua apparente conversione keynesiana ha saputo giostrare e ottenere apprezzabili risultati in questa missione riequilibratrice. Il prestigio di Draghi nell’ambito nazionale deve, probabilmente, molto a questa specifica storia. Le classi imprenditoriali del Nord Italia che concedono credito alla Lega, ma che non lo concedono mai in termini incondizionati, impongono al partito il sostegno nei confronti di Draghi, la Lega non può fare altrimenti. D’altro canto la destra più specificatamente neofascista di Fratelli d’Italia si trova in difficoltà: vorrebbe capitalizzare la propria posizione di unico elemento a destra di opposizione nell’arco parlamentare ma nello stesso tempo non tirare troppo la corda entrando frontalmente in conflitto con un governo che contiene al suo interno tutti coloro dei futuri e necessari suoi alleati in caso di elezioni, né alienarsi le simpatie di quella classe imprenditoriale di loro riferimento che a questo governo intende dare fiducia.

In buona sostanza Draghi ha sapientemente collocato su una tavola le forze politiche in campo, a suo piacimento, dipingendo una sorta di natura morta: ogni elemento al suo posto, bloccato in quella posizione, elemento senza una reale e autonoma vita politica e senza dar loro possibilità di alternativa.

Dalla post-democrazia all’imbroglio della post-politica

Lo scenario fin qui tratteggiato potrebbe ricordare in un certo senso il passaggio dalla Repubblica a quello dell’Impero romano senza, fortunatamente, il terribile corollario della violenza della guerra civile. Sicuramente se il governo Draghi avesse una sua continuità e stabilità, il processo di espropriazione della democrazia in Italia compirebbe un notevole balzo in avanti. D’altra parte il processo regressivo democratico in Italia è stato lento e costante nel corso di tutto l’ultimo trentennio, dal passaggio al maggioritario al recente taglio del numero dei parlamentari il tutto, vale sempre la pena sottolinearlo, appoggiato e sostenuto da quella parte della sinistra che annovera tra le varie rinunce accettate quella del saper leggere il contesto e la storia nella quale il contesto stesso va inserito.

Di post-democrazia si parla ormai da una ventina di anni circa ma possiamo spingerci più in là, cercare di capire se siamo di fronte a qualcosa di più, di fronte ad un governo, in un certo senso post-politico? La questione non si può semplicemente risolvere nella classica coppia oppositiva governo tecnico vs. governo politico. La questione non sta in questi termini: se da un lato possiamo vedere in Draghi il manutentore del pilota automatico dei mercati da lui stesso citato, dall’altro è qualcosa di più. I piloti automatici, perlomeno fino ad un certo livello di sviluppo futuro dell’intelligenza artificiale, hanno sempre bisogno di un programmatore, di un ingegnere capace di programmare l’algoritmo giusto e di direzionare l’azione del pilota nell’ambito del contesto di viaggio. Draghi è anche questo: al di là delle predilezioni accademiche che etichettano le fasi del suo operato, da quelle dell’austerità più feroce a quelle keynesiane con la BCE fino a quelle prefigurate della distruzione creativa schumpeteriana, la pratica del buon capitalista è sempre quella di prendere dalla teoria ciò che meglio serve al momento e applicarlo con efficacia, fosse anche Marx se servisse, ma l’orizzonte non è mai quello del cambio di paradigma; è, al contrario, sempre quello della conservazione e dello sviluppo del sistema.

C’è però un’altra definizione da tenere in considerazione quando si parla di post-politica.

Chantal Mouffe,3 ad esempio, sostiene ormai da anni che il processo che ci porta alla post-politica non è semplicemente economico ma propriamente culturale: figlio di un tempo nel quale per il cittadino non esiste alcuna vera possibilità di scelta elettorale, poiché i partiti di centro-destra e di centro-sinistra perseguono sostanzialmente lo stesso tipo di politiche ed è portato a vivere nella condizione per cui non esiste speranza di alternativa alla globalizzazione neoliberista. Le forme di diversa articolazione e di svariata resistenza sorte in questi anni nei confronti dello status quo sono generalmente definite populiste e dovrebbero comunque segnare un punto positivo a favore della resistenza democratica ma, oggi, in questa precisa situazione, possiamo considerare davvero l’attuale sistema come post-politico al quale contrapporre movimenti di stampo populista?

Nuovi e vecchi mostri che ritornano

Di fronte all’elenco dei ministri proposti da Draghi, sempre “Il Cantiere delle Idee” si pone il presente quesito:4 quale può essere il significato del ripescaggio di figure di ministri della vecchia destra berlusconiana, non certo riproposte con criteri meritocratici, come quelle di Brunetta, Gelmini, o Carfagna? Si tratta di non avere la minima idea di come la pensa una certa parte del paese, oppure si intende lanciare un segnale forte e inequivocabile di affermazione di potere per cui l’imperatore può fare ciò che desidera indifferente all’appoggio dei cittadini e dell’elettorato? Con tutta probabilità la seconda opzione appare più realistica e la scelta specifica di queste figure a copertura di specifici ministeri è tutt’altro che iscrivibile nell’ambito della post-politica, anzi: siamo di fronte a scelte di messaggio e di indirizzo profondamente politiche.

Al di là delle vecchie figure la composizione del Governo è tale per cui Draghi possa controllare tutti i ministeri chiave, la componente “bocconiana” sia sufficientemente rappresentata da ben 5 ministri e il ministero della transizione ecologica venga affidato ad un fisico fino ad oggi impegnato nel settore della difesa aerospaziale nella Leonardo S.p.A, ex Finmeccanica, decima impresa di difesa nel mondo e terza europea: una sostanziale presa in giro! Qualsiasi illusione in merito ad una transizione ecologica che metta in discussione le devastanti e inutili opere della TAV, TAP e simili può morire sul nascere. Quanto al ministro dell’istruzione, anche se non bocconiano, ha perfezionato i suoi studi alla London School of Economics and Political Science…

Tutto ciò considerato potremmo affermare che il governo di Draghi conferma l’impianto neoliberista nei termini più assoluti e si pone come un governo “di classe” anche in maniera esplicita nei confronti dell’opinione pubblica. Il calcolo dei rapporti di forza in campo, d’altra parte, glielo concede abbondantemente. L’esperienza di questi anni ha insegnato qualcosa di importante: se da un lato la rappresentanza delle tradizionali forme della sinistra partitica e sindacale sono in profonda crisi, dall’altro la presenza di forme di resistenza sparse in Europa, sorte dal basso, dalle più piccole forme di mutualismo alle grandi battaglie francesi a partire da quella contro la Loi Travail fino all’esperienza dei Gilets Jaunes, mostrano un sistema che, seppur in crisi, è in grado di reggere facilmente qualunque tipo di conflitto.

Per affrontare quindi il presente dobbiamo porci, e dobbiamo possibilmente rispondere ad almeno tre domande: cosa ha in mente di fare il governo Draghi? Perché la possibilità del conflitto appare oggi improponibile? Alla luce delle eventuali risposte alle prime due cosa dobbiamo fare?

La distruzione distruttiva

Nel dicembre scorso il Gruppo dei 30, organizzazione di accademici e del Gotha della finanza internazionale, pubblicò un documento a firma di Mario Draghi insieme a Raghuram Rajan nel quale viene proposto di classificare nel 2021 le imprese in cinque distinte classi; una di queste classi era dedicata alle cosiddette “Zombie firms” o “walking dead”, cioè le imprese insolventi. Un’attenzione particolare era posta nei confronti delle PMI, imprese che assorbono in Italia l’80% della forza lavoro poiché è proprio nel settore delle piccole e medie imprese che si annidano la stragrande maggioranza delle Zombie firms. Tali imprese sono, in particolare, quelle che non sono più in grado di coprire il costo del debito con profitti correnti e la cui esistenza, quindi, dipende in toto dalla volontà dei creditori. Il fenomeno era sicuramente già molto diffuso ben prima della pandemia da Covid-19, ed è inutile sottolineare quanto la situazione sia peggiorata in termini esponenziali. L’eventuale ondata di fallimenti a catena non sarebbe indifferente in termini di pressione sul sistema bancario e finanziario in generale, quindi che fare? Usare il denaro pubblico per salvarle oppure lasciarle al fallimento seguendo la linea di una sorta di distruzione creativa schumpeteriana? La risposta ricavabile dal documento prevede possibilità di intervento sia politico che di mercato: l’intervento per correggere il loro modello di business per la loro sopravvivenza oppure, laddove ciò non fosse possibile, lasciare mano libera al mercato e chiuderle. La preoccupazione del Draghi esplicitamente schumpeteriano è e rimane quella della stabilità finanziaria, quello che intende eliminare le forme di sussidio alle imprese, quello di uno stato sufficientemente leggero che facilita il mercato ma non lo intralcia e, quindi, non si contrappone alla catastrofe economica e occupazionale accelerata dalla pandemia. In particolare la questione occupazionale, in termini sempre schumpeteriani,  viene risolta immaginando sì un’ingente perdita di posti di lavoro da un lato ma, dall’altro, ipotizza in modo veloce e superficiale, il graduale passaggio della forza lavoro dalle imprese fallite a quelle più efficienti, come se questa cosa fosse davvero realistica e, nel caso si avverasse, come se non ci fosse un prezzo da pagare in termini di nuove condizioni salariali e contrattuali in generale da parte dei lavoratori. È abbastanza chiaro che questa visione per Draghi contempli la totalità del mondo del lavoro: l’assegnazione del Ministero per la semplificazione e la Pubblica Amministrazione  a Renato Brunetta conferma che la mannaia distruttiva non risparmierà il settore pubblico, probabilmente con quel corollario politico di gestione sociale del fenomeno attraverso la contrapposizione, per non dire la guerra tra poveri, tra lavoratori pubblici e privati. E’ appena il caso di accennare, inoltre, che una prospettiva di questo tipo non farà altro che accelerare i già avanzati processi di centralizzazione del capitale in poche mani, quindi la polarizzazione e il controllo tanto economico quanto sociale.

Infine alcune considerazioni in merito alla distruzione creativa schumperetiana. Joseph Schumpeter elaborò il concetto di distruzione creativa nella prima metà del secolo scorso come quel processo di mutazione industriale in grado di rivoluzionare incessantemente la struttura economica, distruggendo quella vecchia e creando sempre quella nuova. Il concetto fu in auge negli anni ’50 del secolo scorso, dopo la fine della seconda guerra mondiale  e nel corso di quei 30 anni di crescita impetuosa per tutto l’Occidente. Nel contesto odierno, a fronte di un sistema che appare in crisi strutturale, la minaccia reale del definitivo collasso ambientale nel giro di pochissimi decenni, una crisi economica che non vedeva soluzione già prima della mannaia della pandemia, ha un qualche senso confidare in una distruzione creativa? E se si confida in questa, cosa colpirà la distruzione e in quali i termini dimensionali?  Al di là dei fallimenti e della centralizzazione del capitale – anche per mezzo dell’acquisizione a prezzi stracciati dei falliti – l’orizzonte futuro per il nostro paese si popola, quindi, di un’enorme massa di milioni di nuovi disoccupati e precarizzati, di coloro che pagheranno il prezzo della distruzione sulla loro pelle lasciando tutta la creatività positiva nelle mani di ben altre classi sociali. D’altra parte, a fronte della crisi in atto, anche le tanto sbandierate risorse del Recovery Plan appaiono nella realtà contabile ben poca cosa per fronteggiare la situazione: Draghi ne è perfettamente consapevole e a coloro che in passato gli facevano notare il problema dell’insicurezza e della precarietà dei giovani, ha sempre riposto che tale insicurezza era giusto la provassero anche gli adulti. Se le premesse verranno mantenute il massacro sociale sarà assicurato.

Is there no Alternative or is there no Hope?

Se la democrazia è il frutto di un processo storico antagonistico in linea con le dinamiche dei processi partecipativi e conflittuali perché ci troviamo in questo stato? Perché in un Paese come il nostro non c’è che qualche timido e isolato tentativo di resistenza che lascia completamente indifferente il sistema? Possiamo attenderci la rinascita di un conflitto che non si riduca, nell’attuale situazione dei rapporti di forza, alla testimonianza del martirio?

La questione della pandemia ci aiuta a mettere più a fuoco la gravità della situazione in particolare se focalizziamo l’attenzione sulla regione più colpita dal Covid-19: la Lombardia. Già a dicembre la John Hopkins University aveva stabilito come l’Italia fosse stata la nazione più colpita la mondo con primati mondiali non solo in termini di contagio ma anche di tasso di mortalità in Lombardia. Lombardia, e provincia bergamasca in particolare, occupano i vertici di questa speciale classifica non certo per particolari predisposizioni genetiche al contagio degli abitanti di questi territori ma per precise cause e responsabilità delle quali se ne sta occupando anche la magistratura. Inoltre, è apparso chiaro che il sistema sanitario lombardo, ormai prevalentemente privatizzato, si è dimostrato  totalmente impreparato per fronteggiare la pandemia con tassi di mortalità nel periodo marzo-aprile 2020 di gran lunga superiori a quelli di qualsiasi altro paese, anche del cosiddetto Terzo Mondo. A fronte di una classe politica totalmente supina ai dictat del potere imprenditoriale che ha fatto di tutto per non chiudere le attività, di fronte al palese fallimento della privatizzazione della sanità pubblica, di fronte ad una carneficina che conta migliaia di morti in altre condizioni evitabili, la reazione da parte della popolazione è stata sostanzialmente risibile. Non solo, in una futura prospettiva elettorale appare persino molto probabile che le forze politiche che governano attualmente la regione verrebbero nuovamente premiate fatto salvo la caduta di qualche testa impresentabile. La questione Lombarda, però, è solo la punta di diamante dell’intera situazione italiana: in linea generale, o perlomeno maggioritaria, il sentimento più diffuso non è quello di rivoluzione o di semplice rivolta, neppure quello della rabbia incontrollata che sorge dalla frustrazione, bensì, quello di una grande depressione di massa.

In Italia, forse più che in altri paesi, il principio thatcheriano per il quale non ci sono alternative ha scavato in profondità per quattro decenni non solo in termini politici ma anche in termini sociali,  nella psicologia collettiva, egemonizzandone tanto la cultura, quanto condizionando la vita materiale e quotidiana delle persone. Non ci sono alternative e non c’è speranza di trovarne: questo appare oggi il pensiero più diffuso. Di fronte a tale atteggiamento le speranze di un qualche miglioramento, della prospettiva del “si salvi chi può”, non passano attraverso l’impegno partecipativo e neppure nell’idea della costruzione delle condizioni per agire un conflitto in termini collettivi; la speranza viene passivamente riposta nell’intelligenza e nella magnanimità del nuovo imperatore di turno. In questo contesto, alla luce di quanto accaduto nell’ultimo anno di pandemia, appare chiaro che un governo come quello di Draghi, allo stato attuale non ha alcunché da temere da parte di ipotetiche rivolte popolari dal basso. In un certo senso, la connotazione di classe e la scelta di tutelare specifici interessi di classe a scapito di altri mette in discussione anche la chiave di lettura populista, nella misura in cui se non si riconquistano all’interno di questo specifico periodo storico le letture di classe che consentono una contrapposizione in questi termini, difficilmente si potrà scalfire persino superficialmente una forma di potere e di governo che oggi può trovare i suoi nemici solo ed esclusivamente nelle congiure di palazzo e nelle dinamiche conflittuali interne alla classe capitalista, ma non di certo in classi subalterne politicamente agonizzanti. In questo senso, il governo Draghi può iscriversi a pieno titolo nella traiettoria storica della grande regressione civile e democratica planetaria e occidentale in particolare: la sua connotazione di classe  volta non solo a salvaguardare il capitalismo dei profitti ma anche quello dei grandi rentiers finanziari assume forse proprio in questa direzione un senso post-politico, determinato però da una condizione sociale e di generale visione del mondo che ricorda molto la pre-modernità.

Come fare?

Di fronte a tale scenario cosa fare? la domanda da porsi è forse oggi ben diversa dal semplice “che fare?”: se nella costruzione dell’orizzonte di una nuova alternativa ci riferiamo alla definizione di utopia di Horkheimer per cui l’utopia è “la critica di ciò che è e la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere” allora dobbiamo ammettere che, al di là delle apparenze, oggi saremmo a buon punto sia con la critica all’esistente che alla rappresentazione del dover essere. Se ci sforziamo per un attimo di non curarci di coloro che per ignoranza sostengono che a sinistra non esista oltre la critica una proposta concreta e lasciamo definitivamente soli al loro triste destino i cultori dell’accettazione del meno peggio, dobbiamo ammettere che le proposte alternative ci sono, magari non ancora coordinate, complete e compiutamente condivise, ma ci sono. Nel mondo della sinistra più tradizionale, partitica e istituzionale quanto in quello dei movimenti c’è stato uno sforzo in questi ultimi anni per l’elaborazione di proposte economiche e sociali nelle quali tanto la sostenibilità ambientale quanto quella sociale vengono rispettate, proposte concrete votate al cambio di paradigma sistemico. Per fare un esempio concreto degli ultimi mesi il processo continuo di costruzione di proposta degli aderenti al manifesto “Per una società della cura”5 è forse uno dei più significativi e concreti. Da un’altra prospettiva si moltiplicano le proposte e gli interventi dal basso sul piano del mutualismo mentre, su un piano dimensionale ben diverso, la pandemia ha stimolato riflessioni e nuove proposte nei confronti di una visione della politica e dell’economia pianificata tanto a livello nazionale che sovranazionale.6

Stimoli e proposte, insomma, non mancano, sapremmo cosa fare ma la questione centrale è “come” fare?

Nel dicembre del 2018 e, successivamente, nell’ ottobre del 2019, alla vigilia delle celebrazioni per il trentennale della caduta del muro di Berlino, si tennero due distinti dibattiti tra Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard prima e Mario Monti poi.7 Due considerazioni che scaturiscono da questi dibattiti sono importanti e utili ai fini della risposta alla domanda del “come fare?”

La prima è inerente alla possibilità di una rivoluzione della politica economica che in un modo o nell’altro possa richiamarsi a Keynes: nella risposta a tale quesito Brancaccio tende a negare questa possibilità facendo quello che spesso non viene fatto neppure a sinistra: storicizzare il keynesismo, inserirlo in un contesto storico e di particolari rapporti di forza che l’hanno reso possibile, quello del grande conflitto di sistema tra capitalismo e socialismo, dell’antagonismo della guerra fredda. A prescindere da errori, orrori e qualsivoglia giudizio verso il socialismo reale, manca forse la contrapposizione, il pungolo del confronto tra sistemi, per rendere possibile la speranza nella realizzazione di una sintesi keynesiana oggi? A giudicare dall’evoluzione dell’ultimo trentennio in Occidente si direbbe che nessuna speranza ci può ora addolcire. La seconda considerazione importante è quella di Mario Monti, il quale, in maniera abbastanza incredibile, ammette senza mezzi termini che “il suo peggio, il sistema capitalistico l’ha dimostrato da quando è caduto il muro di Berlino.”

Sebbene tali sottolineature appaiano in parte avulse da quanto scritto finora o, perlomeno, a rischio di ampliare in modo incontrollato la discussione, ora ci sono almeno due elementi da tener presenti. Il primo: oggi siamo in una situazione di sistema unico nella quale non esiste un pungolo esterno ma neppure una contrapposizione interna che abbia una pur risibile sostanza. Il grande abbaglio della Terza via delle socialdemocrazie occidentali e di coloro che a sinistra hanno sperato e sperano tuttora di gestire l’attuale contesto con una irrisoria rappresentanza sta in questa mancata presa di coscienza.

Il secondo elemento: senza alcun pungolo, senza riequilibrio dei rapporti di forza, senza la reale possibilità di agire un conflitto, il capitalismo e i suoi Draghi continueranno indisturbati a dare il peggio di sé perché ciò è strutturale del sistema, ancor più quando la crisi stessa è strutturale.

La questione, quindi,  per la sinistra e per i movimenti si pone in termini qualitativi ben diversi dalle attuali liste del “cosa fare” e va focalizzata, in primis, sul “come fare”, se possibile, a riconquistare una posizione accettabile nei rapporti di forza perché nell’orizzonte del cambiamento il conflitto, ci piaccia o meno, è inevitabile.

Purtroppo per noi non si tratta di scegliere un solo terreno dal quale partire: la destrutturazione culturale di questi decenni non ha semplicemente lasciato impronte profonde, bensì ha letteralmente rivoltato il terreno sul quale si fonda la psicologia e la vita materiale delle persone.

Alle forze di sinistra non serve bruciare le residue energie in avventure elettorali che anche quando raggiungono, con enormi fatiche e conflitti interni, il miracolo inaspettato della rappresentanza politica, finiscono per far sentire la loro voce in un contesto desertificato che riserva loro solo indifferenza. D’altro canto, però, sono insufficienti le singole esperienze territoriali così come il lavoro teorico volto all’elaborazione dell’alternativa sistemica. Per affrontare un problema culturale ormai radicato nella storia, siamo condannati ad agire in tutti gli ambiti possibili per tentare di entrare in qualche modo e su vari livelli nella quotidianità della vita delle persone. Senza queste azioni, plurime, articolate, continue e costanti difficilmente troveremo un terreno di conflitto agibile, senza la coscienza e la corretta lettura del presente, difficilmente potremo sostenere l’impatto di una vera e propria guerra che, ad oggi, rischia di trasformarsi in breve tempo in un semplice massacro unilaterale.

  1. Domenico Losurdo – La Sinistra assente – Carocci editore – Roma 2014[]
  2. https://www.facebook.com/760144364374070/posts/1609671462754685/?sfnsn=scwspmo
  3. Chantal Mouffe – Sul politico – Bruno Mondadori, Milano 2007[]
  4. https://www.facebook.com/760144364374070/posts/1610923689296129/[]
  5. https://www.facebook.com/societadellacura/
  6. Cfr. Emiliano Brancaccio – Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione– Meltemi editore , Milano 2020[]
  7. https://www.emilianobrancaccio.it/2019/11/09/keynes-sotto-il-muro-di-berlino/